SOSTENERE LE IMPRESE DEL TERZIARIO
Nr. 14 del 15/07/2003
All’assemblea annuale della Confcommercio nazionale il presidente Sergio Billè invita l’esecutivo a sostenere quel sistema di servizi di mercato sul quale sempre di più si regge l’economia nazionale
Più fatti e meno annunci. Meno parole e più progetti operativi. Il presidente nazionale della Confcommercio Sergio Billè, nel corso dell’assemblea annuale della Confederazione, si rivolge al governo e chiede misure concrete da subito a favore del terziario per venire fuori da un clima di incertezza che pesa non poco sull’economia. Ed è stato proprio da qui che è partita l’analisi di Billè, di cui riportiamo in larga sintesi i passaggi sostanziali.
Istituzioni. Regna la precarietà, si vive alla giornata e non si sa se il 2004 potrà essere l’anno della svolta e del rilancio. La tendenza delle famiglie (che nell’ultimo anno hanno visto il loro reddito ridotto dell’11 per cento) e delle imprese sembra quella di restare chiuse nel proprio guscio in attesa di tempi migliori. La preoccupazione regna sovrana, e la prima risposta perché questo malessere non diventi cronico deve venire dalle istituzioni. E da questo punto di vista il sistema delle Camere di commercio può diventare un osservatorio privilegiato per il rapporto che ha con le realtà economiche e sociali, e una stabile interfaccia con le imprese. La ricetta anti-crisi prevede l’accelerazione del cammino delle riforme e l’eliminazione dei forti squilibri che esistono all’interno del sistema.
Europa. La costruzione di un’identità europea è un importante passo in avanti ma essa rischia di restare un ibrido se non verranno predisposti gli strumenti che consentano una vera «governance» dell’Unione. E poi una cosa deve essere chiara: se non si creano importanti assi di scorrimento verso Est e verso il bacino del Mediterraneo, se non si fa una vera politica dei servizi, se non si fa ricerca, molti paesi europei, e soprattutto l’Italia, rischiano di perdere tutti i treni dello sviluppo.
Economia. Siamo sul filo di una vera stagnazione con un Pil che nel 2003 è cresciuto solo dello 0,5 per cento, al di sotto della media europea. E poi una produzione e una competitività che restano in affanno. Anche se, da un altro versante, il Governo ha evitato che il debito pubblico si trasformasse in una voragine tale da compromettere il rispetto dei parametri imposti dal Patto di stabilità e la possibilità di sviluppo del nostro sistema. E preoccupa anche la forte e persistente caduta dei consumi, soprattutto nei settori dei beni durevoli e semidurevoli. Ci sono difficoltà per le imprese manifatturiere e per il settore della distribuzione alle prese con introiti ridimensionati. Tutto questo mentre i risparmiatori non riescono a trovare forme di investimento remunerative e ci sono profonde anomalie nella politica del credito: da una parte le banche godono ottima salute, ma dall’altra famiglie, operatori e imprese hanno una salute sempre più malferma. Fra gli esempi il Pagobancomat tutto a carico dei commercianti e le difficoltà nell’accesso al credito delle piccole imprese.
Politica del governo. Sarebbe sbagliato tamponare le falle del vecchio modello economico. Risorse e strumenti vanno utilizzati per venire incontro alle sempre più pressanti esigenze di tutto quel sistema di imprese - distribuzione, servizi, turismo e trasporti - su cui oggi fa perno gran parte dell’economia nazionale. Altrimenti sarà sempre più difficile programmare una vera politica di sviluppo. Basta, quindi, fornire assistenza alla parte più malata del sistema ma creare valide forme di sostegno a quei settori di imprese che continuano a produrre valore aggiunto, investimenti e nuovi posti di lavoro. La verità è che la piramide su cui si regge il sistema economico si è rovesciata. Negli ultimi trent’anni il peso dell’industria manifatturiera è passato dal 40 per cento del 1970 al 27 per cento di oggi. Al contrario il peso di tutto il sistema dei servizi di mercato, esclusa la pubblica amministrazione, è cresciuto dal 36 per cento del ‘70 al 51 per cento e passa di oggi. Inoltre il trend di crescita dell’industria è solo dell’1,7 per cento, la metà di quello registrato dal settore dei servizi. Siamo, insomma, nel pieno di una società dei servizi sempre più dinamica, mentre quella industriale sta diventando sempre più rigida. E tutto questo come effetto anche della mondializzazione e dell’innovazione tecnologica.
Società dei servizi. Le imprese che operano per realizzare questo progetto hanno prodotto dal 1970 ad oggi l’85 per cento dei nuovi posti di lavoro e alimentano ormai più del 51 per cento del nostro prodotto lordo. Eppure sono le stesse che attendono da anni risposte sul fronte della ricerca, dei programmi e degli investimenti.
Riforma fiscale. Resta ancora a mezz’aria perché non è chiaro quali potranno essere i suoi reali tempi di attuazione. Una prima riflessione da fare riguarda l’imposta sul reddito delle persone fisiche, la seconda le imposte indirette. Non ci sarà una vera riforma se essa non consentirà di abbattere anche le aliquote dell’Iva alleggerendo il carico fiscale che pesa si settori strategici della nostra economia quale, in primo luogo, il turismo. Si attende poi l’abolizione dell’Irap, una tassa che colpisce proprio quelle imprese che oggi creano maggiore occupazione.
Infrastrutture. Il gap che pesa sul nostro sistema è insostenibile. Come dotazione siamo sotto la media europea per almeno il 15 per cento, ma paesi come Francia, Germania e Spagna ci sopravanzano del 30-35 per cento. Le maggiori carenze sono nei settori della produzione dell’energia, degli acquedotti, delle comunicazioni, del sistema viario, ferroviario, portuale, marittimo e di tutti i servizi di base. Sono carenze che riducono la competitività delle imprese e tagliano le gambe soprattutto al sistema dei servizi. I black out verificatisi nei giorni scorsi e che potranno ripetersi sono la punta dell’iceberg di una crisi assai più profonda e complessa.
Mercato del lavoro. La riforma è un fatto ormai ineludibile. Primo, perché l’aumento della flessibilità consente reali possibilità di sviluppo a tutto l’arco del sistema produttivo e delle società dei servizi. Secondo, perché offre alle piccole e medie imprese un più ampio ventaglio di opportunità per realizzare nuovi investimenti e creare nuovi posti di lavoro. Il fatto che il referendum sull’estensione dei principi dell’articolo 18 alle imprese fino a 15 dipendenti non abbia avuto il consenso della grande maggioranza degli elettori è un’ulteriore conferma della giustezza di questa riforma. E perché possa avere gli effetti desiderati è indispensabile creare ammortizzatori sociali che consentano a ogni tipo di impresa di fronteggiare i periodi di crisi con strumenti direttamente finalizzati al reinserimento occupazionale.
Sicurezza. Seppure le attività di contrasto dello Stato abbiano conseguito qualche positivo risultato, il sistema-paese continua a subire pesanti contraccolpi a causa della criminalità organizzata. Almeno un quarto delle piccole e medie imprese è costretto ogni giorno a fare i conti con questa drammatica realtà. Allo stesso modo diventano sempre più insostenibili i conti da fare con un abusivismo che resta fuori da ogni controllo.
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