CARO-CARBURANTI, TIMORI PER L’INFLAZIONE
Nr. 11 del 07/06/2004
L’impennata del costo della benzina, che ha sfiorato quota 1,2 euro a litro, mette in allarme l’intero comparto del commercio. Il rischio, infatti, è che il caro benzina contribuisca ad innescare la spirale inflazionistica, come già accaduto durante gli anni dello choc petrolifero (tra il ‘73 e il ‘79). E per il settore ciò potrebbe significare prezzi nuovamente in salita e negozi vuoti.
A nulla sono serviti gli appelli lanciati dal G7 ai grandi produttori di petrolio. I prezzi del greggio hanno sfiorato il nuovo massimo di 42 dollari a barile. Un decollo dei costi dell’oro nero, che nei distributori stradali italiani ha portato la benzina oltre la soglia di 1,165 euro al litro, raggiungendo anche quota 1,185 euro al litro, cifra che non ha precedenti.
Ma è sull’andamento dell’inflazione che gli effetti del caro-carburante si sono già fatti sentire e abbondantemente. Nel solo mese di maggio, l’indice inflazionistico è infatti aumentato dello 0,2% circa, portando ad un innalzamento del carovita al 2,5%.
Per questo la Confcommercio nazionale si è già mossa d’anticipo e ha chiesto a gran voce al Governo un intervento mirato sulle accise del greggio e sulle imposte che mettono in moto i rincari. Secondo le stime dell’Ufficio Studi della Federazione, infatti, il caro-petrolio avrebbe prodotto, dall’inizio dell’anno, un incremento del gettito Iva pari a 70 milioni di euro.
Di questi, 11 milioni riguarderebbero solamente l’ultimo mese. Cifre che se da un lato vanno ad aumentare le entrate fiscali, dall’altro penalizzano i trasporti e, in una situazione già grave, i consumi delle famiglie.
Una risposta alla richiesta della Confcommercio è giunta dal Ministro dei Rapporti con il Parlamento, Carlo Giovanardi, che ha ammesso essere «inevitabile» un intervento dell’esecutivo sulla materia. Ma, ha sottolineato, «è ancora necessaria una generale valutazione sulle possibili misure da adottare. Bisogna infatti capire se sia meglio procedere con interventi di riduzione dell’imposizione fiscale, specificatamente mirati al settore dei prodotti petroliferi, ovvero sia più utile ricondurre tali interventi nel più complessivo processo di riduzione della pressione fiscale».
I benzinai, intanto, sono sul piede di guerra. Le associazioni dei gestori denunciano forti flessioni nei consumi e chiedono che il Governo deliberi al più presto per un bonus fiscale.
E’ l’ombra di una possibile crisi energetica legata al rincaro del greggio ad oscurare ancora una volta l’orizzonte italiano. Il mix di fonti che alimentano le centrali del nostro Paese, infatti, sono il motivo principale dell’attuale incertezza esistente sul mercato dell’energia.
Diversamente dal resto d’Europa, l’Italia utilizza principalmente olio combustibile per i processi energetici e ciò determina immancabilmente costi di produzione maggiori rispetto all’opzione del nucleare e del carbone.
Tra le diverse concause che determinano prezzi finali dell’energia elettrica superiori di oltre il 25% a quelli pagati mediamente dalle piccole-medie imprese europee, non ci sono però soltanto le caratteristiche dell’attuale parco di generazione italiano e la lentezza con cui si procede all’ammodernamento. Confrontando a livello internazionale le singole componenti del prezzo finale dell’energia, si scopre infatti che l’Italia paga sì i più alti costi variabili di produzione (cioè di combustibile), ma anche i più alti «oneri di sistema», espressione con cui si intende, ad esempio, la copertura dei costi sostenuti a livello nazionale per smantellare le centrali nucleari italiane, promuovere la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili e sostenere l’attività di ricerca nel settore elettrico.
Se a questo si aggiunge una componente fiscale che risulta essere la più alta d’Europa e un processo di liberalizzazione dell’energia che ancora deve fare i conti con antichi protagonismi a fronte di un piccolo numero di produttori, il timore di un aumento dei prezzi dell’energia si prospetta, purtroppo, assai concreto.
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